Non odiare Venezia 2020: intervista a Mauro Mancini
Non odiare Venezia 2020, il film di Mauro Mancini con Alessandro Gassmann e Sara Serraiocco è protagonista della Settimana della Critica alla 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Non odiare Venezia 2020: il trailer ufficiale
La storia di Non odiare è ambientata in una città del nord-est, un non-luogo mitteleuropeo, contaminato da tante etnie, pulsioni, sedimentazioni e dalle profonde radici ebraiche. Qui, nel centro storico, vive Simone Segre (Alessandro Gassmann), un affermato chirurgo di origine ebraica: ha una vita regolare, senza scossoni, un appartamento elegante e più nessun legame con il passato. I duri contrasti con il padre, un reduce dei campi di concentramento morto da poco, l’hanno portato ad allontanarsi da lui ormai da anni.
Tornando dall’allenamento settimanale di canottaggio, Simone si trova a soccorrere un uomo vittima di un pirata della strada. Ma quando scoprirà sul petto di questo un tatuaggio nazista, lo abbandonerà al suo destino. Nei giorni seguenti, però, prevarrà il senso di colpa per la morte dell’uomo e Simone rintraccerà la famiglia del neonazista che vive in un complesso periferico popolare: Marica, la figlia maggiore (Sara Serraiocco); Marcello (Luka Zunic), al suo primo ruolo da co-protagonista, il figlio adolescente contagiato anche lui dal seme dell’odio razziale; il “piccolo” Paolo (Lorenzo Buonora). Verrà la notte in cui, Marica busserà alla porta di Simone, presentandogli inconsapevolmente il
conto da pagare…
“Né buoni né cattivi, ma semplicemente esseri umani”: così immagina i personaggi il regista Mauro Mancini. In definitiva, “personaggi ordinari alle prese con situazioni straordinarie”.
E proseguendo il regista dichiara apertamente: “Non odiare racconta quello che siamo sotto la pelle. La pelle bianca, ’ariana’, che vorrebbero avere Marcello e i suoi amici neonazisti e quella bianca, ’non ariana’, di Simone. La pelle tatuata del padre di Marcello e quella marchiata del padre di Simone. La pelle ‘scura’ dei migranti pestati a sangue nei bangla-tour e quella diafana, limpida di Marica. La pelle scura, spaccata dal sole che picchia sui barconi delle traversate. Quella ‘sporca’ dei “disperati” ai semafori. La pelle delle nostre città. E’ il pretesto per riconoscere l’altro come diverso. È il pretesto per odiare l’altro come diverso. Non odiare è la nostra pelle”.
Sulla genesi del soggetto e della sceneggiatura, che ha scritto con Davide Lisino, il regista afferma: “Abbiamo preso spunto da un fatto di cronaca avvenuto a Paderborn, in Germania. Un medico ebreo si rifiutò di operare un paziente a causa del vistoso tatuaggio nazista che aveva sulla spalla. Il medico, dopo essersi fatto sostituire da un collega, ha dichiarato: ‘non posso conciliare l’intervento chirurgico con la mia coscienza’. La stessa coscienza che abbiamo immaginato impedisca al nostro protagonista di soccorrere lo sconosciuto dell’incidente”.
Il produttore Mario Mazzarotto, che ha fortemente voluto questo film, aggiunge: “C’è stata una gestazione produttiva lunga e complessa, durata 5 anni. In anni in cui l’Italia e l’Europa sono attraversate da pericolosi e inquietanti venti nazionalisti, di fronte alle difficoltà ho perseverato. Il film, senza voler dare risposte, ci aiuta a interrogarci sulle origini dell’odio razziale e le sue conseguenze. Ed anche sulle contraddizioni dell’animo umano e la dilagante xenofobia”.
Il film uscirà nelle sale il 10 settembre.
Non odiare Venezia 2020: intervista a Mauro Mancini
Qual è stata l’origine di questo film?
“Per me e il mio sceneggiatore la scintilla è stata un fatto di cronaca avvenuto nel 2010 in Germania, a Paderborn, dove un chirurgo di origini ebraiche si è rifiutato di operare un uomo che aveva un tatuaggio nazista. In quel caso il medico si è fatto sostituire da un collega senza creare pericolo per il paziente.
Noi invece ci siamo immaginati cosa sarebbe successo se la stessa situazione si fosse presentata senza protezione, dove la scelta del medico avesse fatto la differenza fra vivere e morire. Lo abbiamo messo nella situazione morale ed esistenziale più critica e abbiamo cercato di capire come ne potesse uscire, sempre che fosse in grado di farlo.
Questo, però, non è esattamente un film sull’antisemitismo. Nasce da qualcosa di più generale e profondo, legato a una sorta di “difetto di fabbrica” connaturato all’uomo in ogni epoca: l’odio verso l’altro da sé, verso chi non si conosce. L’Olocausto è diventato l’emblema supremo di questo discorso, ma vale per tutte le epoche e le latitudini, ad esempio per la questione degli afroamericani negli Stati Uniti o per quella dei migranti di questi ultimi tempi. L’odio è un fiume carsico che percorre la storia dell’umanità. Per questo, Non odiare credo possa essere una storia universale e fuori dal tempo.”
In effetti, il film presenta un dilemma morale che chiama in causa direttamente lo spettatore, come se gli venisse chiesto: E tu al posto del protagonista cosa faresti?
“Sì, è esattamente quello che volevo fare. In realtà, se ci riflettiamo, anche se il protagonista avesse lasciato vivere lo sconosciuto neonazista all’inizio del film, ci sarebbero state delle conseguenze etiche. Questo film parla di persone che la vita mette di fronte a scelte morali radicali, viscerali, sconquassanti. E poiché le nostre azioni lasciano sempre un segno, delle conseguenze che attraversano il tempo come una freccia che, alla fine, ineluttabilmente, colpirà qualcuno. E dunque è anche un film sulla memoria e sulla colpa, sull’eredità morale che i padri lasciano ai figli.”
Che reazioni speri di suscitare con il film?
“Mi sono sempre sforzato di non giudicare i personaggi, non voglio dare risposte facili, vorrei porre delle domande. I personaggi fanno un percorso nel film, piccolo o grande, che prevede anche diversi colpi di scena perché le conseguenze di scelte estreme sono sempre imprevedibili. Detto ciò, le contraddizioni della vita rimangono e fin dalla scrittura abbiamo cercato di essere onesti su questo.
Quello che spero è che alla fine lo spettatore uscirà dal cinema con la domanda: da che parte penderà il futuro? Verso la tolleranza o verso l’odio? Se gli spettatori si sentissero personalmente coinvolti da questa domanda e pensassero che forse la risposta finale dipende da ognuno di noi, vorrebbe dire aver fatto un buon lavoro.”
Il film è un’opera prima, ma le scelte stilistiche e narrative sono chiare, c’è un’impronta registica molto ben definita e cucita su misura alla storia da raccontare. In breve: la scelta di “fare una regia”, scegliere un punto di vista chiaro, fornire un’interpretazione visiva della storia, con le immagini che delineano il ritratto intimo della solitudine che avvolge i protagonisti…
“Per il mio primo lungometraggio, sapevo di avere scelto un tema difficile, controverso. Ma sapevo anche che mi appassionava perché riguarda una delle cose che di più vale la pena raccontare: il cuore umano in conflitto con sé stesso. Tutti e tre i protagonisti del film, infatti, si trovano prima o poi a dover affrontare una battaglia interiore fra i loro
sentimenti, i loro pregiudizi e le aspettative che ognuno di loro ha su di sé.
Per raccontare queste traiettorie umane, mi sono convinto che la macchina da presa dovesse mantenere una “giusta distanza” dai personaggi, senza psicologismi né sottolineature. Un po’ come se a guardarli fosse un osservatore muto che rimane in disparte in un angolo della stanza. Credo che, spesso, siano le inquadrature con meno enfasi a portarci al cuore di una questione (di nuovo il cuore, non a caso).
Per questo ho scelto di usare, per il racconto delle singole scene, sempre un numero ridotto di inquadrature da cui osservare i personaggi e i loro movimenti nell’ambiente. Uno stile asciutto in cui ho privilegiato spesso i campi lunghi e i totali, rimanendo quando possibile in piano sequenza. Girando in questo modo, volevo che i dilemmi morali della storia emergessero con forza spontanea, senza pilotare il giudizio dello spettatore. Il quale è messo nella condizione di partecipare con empatia alle vicende dei protagonisti e al contempo sentirsi impotente di fronte alle azioni e alle scelte laceranti che fanno. Che, poi, in fondo, mi pare siano le emozioni che proviamo tutti di fronte a certi eventi
incontrollabili della nostra vita.”
La storia di Non odiare è ambientata in una città del nord-est, in un non-luogo mitteleuropeo. La città dove hai girato il film è Trieste: perché questa scelta?
“Sicuramente Trieste è uno dei posti migliori da cui osservare il mondo, per storie in cui c’è la compresenza spaziale del passato e del presente, quando si tratta di conflitti interiori, sensi di colpa e c’è il contagio dell’intolleranza razziale.
La storia di Non odiare è stata girata a Trieste, cuor d’Europa (Svevo prima e Saba poi l’han fatta amare a noi tutti), luogo per storia riccamente contaminato e innervato da tante etnie, pulsioni, sedimentazioni: un seducente melting-pot e una “scontrosa grazia”, per questa città mitteleuropea dalle profonde radici ebraiche, testimoniate dall’antica sinagoga, dove, per la prima volta, è stata girata la scena di un film.”
credit image by Press Office – photo by Notorious Pictures